I revisori fuori dal perimetro del reato di falso in bilancio

La responsabilità penale dei revisori si distingue notevolmente da quella degli amministratori e sindaci, poiché i primi non sono inclusi tra i soggetti suscettibili di commettere il reato di bancarotta. Inoltre, la responsabilità per le false relazioni dei revisori si differenzia dal reato di falso in bilancio in senso stretto.

La recente sentenza n. 47900 depositata dalla Cassazione esamina questo tema controverso. Il caso riguarda il fallimento di una società per azioni, che ha portato all’avvio di un procedimento per bancarotta societaria (ai sensi dell’art. 223 comma 2 del RD 267/42) in relazione al reato di falso in bilancio (art. 2621 c.c.) nei confronti del Presidente del Consiglio di Amministrazione e dei due revisori dei conti.

Nel caso specifico, si contesta loro di aver presentato nel bilancio ordinario e consolidato informazioni non corrispondenti alla realtà, in modo tale da ingannare i destinatari delle comunicazioni sociali sulla situazione economica, patrimoniale e finanziaria della società. Ciò aveva concorso a cagionare il dissesto della società, che però aveva continuato l’attività senza mezzi propri nascondendo questa situazione nelle comunicazioni sociali.

La bancarotta è considerata un “reato proprio” che può essere commesso solo da amministratori, direttori generali, sindaci e liquidatori. Tuttavia, in base all’art. 110 c.p., un estraneo (ad esempio, un dipendente o un collaboratore) può concorrere al reato fornendo un contributo morale o materiale. Il revisore, essendo estraneo ai soggetti qualificati dall’art. 223 del RD 267/42, può essere chiamato a rispondere del reato di bancarotta societaria solo in veste di estraneo, secondo le norme generali sul concorso. Ciò sottolinea la differenza “normativa” tra amministratori e sindaci da un lato e revisori dall’altro.

La Cassazione richiama l’evoluzione normativa dello statuto penale dei revisori, evidenziando che al tempo dei fatti contestati, la falsità nelle relazioni delle società di revisione era punita dall’art. 2624 c.c., ora confluita nel DLgs. 39/2010. I giudici sottolineano che i revisori non sono soggetti qualificati per il falso in bilancio, poiché il falso nelle relazioni di revisione si colloca al di fuori del perimetro di tale reato.

Le condotte contestate riguardano la formulazione di false attestazioni di regolarità dei bilanci e l’omissione di informazioni rilevanti nella situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società nelle relazioni di diverse annualità. La Cassazione conclude che la condotta materiale consiste nell’elemento tipizzato dall’art. 2624 c.c. (ora art. 27 del DLgs. 39/2010), un reato non contestato e ormai prescritto. La falsità nelle relazioni dei revisori non è correlata all’art. 2621 c.c. né all’art. 223 comma 2 n. 1 del RD 267/42, e non può quindi configurarsi come una modalità di concorso in tali reati senza compromettere i principi di legalità e tipicità.

Nel delineare le fattispecie di bancarotta impropria, il legislatore ha voluto rafforzare l’imposizione di doveri specifici correlati ai poteri degli organi di gestione e controllo per la tutela della società, dei soci e dei creditori. Il revisore, figura esterna agli organi societari, rimane estraneo a tali poteri, in particolare nel sistema precedente alla riforma del 2010. Tuttavia, ciò non esclude che il revisore possa contribuire al reato di falso in bilancio o bancarotta societaria, ma questo richiede il rispetto delle ordinarie forme di concorso previste dall’art. 110 c.p., che nel caso specifico non è stato accertato.

 

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