Cessione di ramo d’azienda fraudolenta e ostacolo alle procedure di riscossione

Le operazioni di cessione di rami d’azienda, in quanto strumenti straordinari di riorganizzazione societaria, sono legittime, ma possono diventare illecite se accompagnate da artifici che ostacolano o complicano le procedure di riscossione.

Il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, disciplinato dall’art. 11 del D.Lgs. 74/2000, richiede che, ai fini della commissione, siano posti in essere atti simulati o fraudolenti, capaci di compromettere l’efficacia della riscossione coattiva. La giurisprudenza ha precisato che anche gli atti dispositivi reali possono essere considerati fraudolenti quando includono strategie ingannevoli finalizzate a sottrarre beni dalle garanzie patrimoniali (Cass. n. 33988/2023).

Alla luce di tali principi, la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 834 depositata il 9 gennaio scorso, ha confermato il sequestro di due società a responsabilità limitata in liquidazione. Il caso riguardava il mancato pagamento di oltre un milione e mezzo di euro di IRPEF da parte di un’altra società, la quale aveva ceduto beni materiali e immateriali, crediti commerciali e marchi, costituenti rami d’azienda, a favore delle due società neocostituite.

Secondo i giudici, l’intera operazione di cessione era caratterizzata da elementi fraudolenti. La società cedente era consapevole della propria esposizione fiscale e degli accertamenti in corso da parte dell’Agenzia delle Entrate. Nonostante ciò, ha proceduto a cedere quasi tutti i beni legati al proprio ramo produttivo, mantenendo su di sé il debito tributario derivante dall’omesso versamento di ritenute, senza includerlo o valutarlo nelle transazioni. Tale comportamento, unito alla trasformazione della società cedente in una mera entità di gestione, in contrasto con il suo oggetto sociale originario, ha rappresentato un indizio significativo di frode.

In merito al sequestro, la Cassazione ha ribadito che il profitto del reato, confiscabile anche per equivalente, corrisponde al valore dei beni idonei a garantire il recupero delle somme evase. Tale valore deve essere calcolato secondo le norme sulla riscossione coattiva. Nel caso in questione, il debito tributario era noto e definito, essendo legato al mancato versamento delle ritenute per più annualità. Tuttavia, la Corte ha ritenuto sproporzionato l’importo del sequestro, pari a oltre 7 milioni di euro, rispetto al debito erariale di 1,5 milioni, e ha quindi disposto un rinvio per una nuova valutazione dell’entità della somma sequestrabile.

 

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