Crediti e cancellazione della società

Con la recente sentenza n. 19750 depositata il 16 luglio 2025, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione sono tornate a pronunciarsi su una questione che, da tempo, divide dottrina e giurisprudenza, ovvero sulla sorte dei crediti di una società al momento della sua cancellazione dal Registro delle imprese. La risposta è netta: non si estinguono. Anzi, tali rapporti attivi sopravvivono all’estinzione dell’ente e si trasferiscono, salvo diversa volontà, in capo ai soci.

La pronuncia sgombra il campo da ogni residua incertezza su un tema che ha generato negli anni contrasti interpretativi rilevanti, culminati nell’ordinanza interlocutoria n. 16477/2024, con la quale la Corte aveva rimesso la questione al vaglio delle Sezioni Unite. Il punto critico riguardava la sorte dei cosiddetti “crediti incerti o illiquidi” e, più in generale, delle posizioni attive non espressamente iscritte nel bilancio finale di liquidazione: per una parte della giurisprudenza, il mancato inserimento di tali voci nel documento conclusivo dell’attività sociale poteva implicare una rinuncia tacita, comportando così una presunzione (semplice o, secondo alcuni, addirittura assoluta) di estinzione. Un orientamento che finiva per attribuire valore dispositivamente abdicativo a una mera omissione contabile.

La Suprema Corte, con la chiarezza che si addice alle Sezioni Unite, ha invece affermato che tale conclusione non può essere condivisa. Nessuna norma del codice civile, né alcun principio generale, autorizza a ritenere che il silenzio contabile dell’organo liquidatore equivalga a una rinuncia giuridicamente rilevante. La rinuncia, per produrre effetti, richiede una manifestazione inequivoca di volontà del creditore, diretta al debitore e, in mancanza, non può desumersi da una semplice omissione formale. Ecco perché, secondo la Cassazione, l’onere della prova circa l’estinzione del credito grava interamente su chi la eccepisce, ovvero sul soggetto chiamato in giudizio dal socio che intenda far valere un diritto già appartenuto alla società.

Questa impostazione, osservano i giudici, si fonda su un criterio di coerenza sistematica e tutela dell’affidamento: da un lato, protegge il diritto del socio a subentrare nei rapporti attivi rimasti in vita dopo la cancellazione; dall’altro, evita che condotte passive o comportamenti ambigui si traducano in effetti abdicativi non voluti. A essere superata, in definitiva, è quella lettura che — facendo leva sulle pronunce gemelle del 2013 (nn. 6070, 6071 e 6072) — aveva tentato di riconoscere un effetto estintivo automatico per le sole pretese non cristallizzate in bilancio. Una tesi che, oltre ad apparire fragile sul piano teorico, esponeva a gravi criticità pratiche, specie per i creditori sociali, i quali, vedendo sparire poste attive dal bilancio finale, si sarebbero trovati privi di strumenti di tutela.

Con questa decisione, le Sezioni Unite pongono quindi un punto fermo: la cancellazione della società non fa venir meno i suoi diritti, e i soci, in quanto beneficiari dell’attivo residuo, possono azionarli o proseguire le azioni già iniziate dalla società. L’unico limite è rappresentato dalla prova, a carico del convenuto, che vi sia stata una remissione del debito secondo le regole codicistiche.

Un principio che restituisce chiarezza, responsabilità e coerenza a un tema cruciale nella gestione delle fasi terminali della vita societaria, e che — inevitabilmente — avrà ricadute operative tanto nelle aule di giustizia quanto nelle prassi liquidatorie degli studi professionali.

 

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