Con l’ordinanza n. 16904 del 24 giugno 2025, la Corte di Cassazione torna a consolidare un orientamento severo ma ormai costante in materia di finanziamenti dei soci alle società, chiarendo che, in assenza di adeguata documentazione e giustificazioni attendibili, tali versamenti possono essere legittimamente considerati “utili” in nero. Si conferma, dunque, la linea interpretativa che attribuisce valore presuntivo all’ingresso di liquidità in contanti, specie se di importo rilevante, non sorretto da delibera assembleare né da elementi capaci di dimostrare l’effettiva disponibilità finanziaria dei soci. Alla base della decisione vi è la presunzione, già fatta propria in precedenti interventi della Suprema Corte, secondo cui somme non contabilizzate, potenzialmente riferibili a utili non dichiarati dalla società, vengano prima distribuite “in nero” ai soci per poi rientrare nel patrimonio della stessa sotto forma di fittizi finanziamenti. Si tratta, di fatto, di una ricostruzione indiziaria fondata su dati oggettivi: modalità di versamento anomale, importi incompatibili con i redditi dichiarati e carenza di documentazione ufficiale.
Nel caso oggetto di giudizio, l’Amministrazione finanziaria aveva contestato alla società un significativo afflusso di denaro contante, formalmente riconducibile a finanziamenti soci. Tuttavia, in sede di accertamento, l’Agenzia delle Entrate ha fatto leva sull’art. 39, comma 2, del D.P.R. 600/1973, applicando il metodo induttivo puro, disconoscendo in toto le scritture contabili sulla base della loro inattendibilità. I versamenti, peraltro ingenti, erano stati eseguiti in contanti e in assenza di delibere assembleari o altre forme di formalizzazione. Né i soci, né la società erano stati in grado di spiegare l’origine di quelle somme, che risultavano palesemente sproporzionate rispetto alla loro capacità reddituale.
La Cassazione ha confermato integralmente l’operato dell’Ufficio, affermando che per poter considerare legittimi i finanziamenti dei soci — e dunque opponibili al fisco — è necessario che questi siano supportati da una delibera assembleare e da evidenze contabili coerenti con la situazione finanziaria dell’epoca. In mancanza, tali elementi diventano indizi gravi e concordanti che giustificano l’intervento accertativo, anche con gli strumenti più penetranti come quelli induttivi.
Il principio espresso dalla Corte è chiaro: quando mancano giustificazioni, la presenza di versamenti in contanti, l’assenza di atti deliberativi e l’incongruenza con i redditi dei soci sono elementi sufficienti a far ritenere che si tratti, in realtà, di utili extracontabili rientrati nel circuito della società. In sostanza, viene ribadita la possibilità per l’Agenzia delle Entrate di riqualificare tali apporti come ricavi sottratti a tassazione.
Non si tratta di un’interpretazione isolata. Già nel 2023, con l’ordinanza n. 27366, la Cassazione aveva sottolineato come la mancanza di una delibera assembleare potesse essere sintomatica di fenomeni evasivi. Anche in quel caso, i giudici avevano chiarito che la società è tenuta a dimostrare l’origine della provvista, pur trattandosi di risorse formalmente apportate da soggetti terzi.
Con la pronuncia più recente, la Corte aggiunge un ulteriore tassello a questo indirizzo: quando i soci non sono in grado di dimostrare di disporre delle risorse necessarie a sostenere gli apporti effettuati, il sospetto di reintegro di utili non dichiarati diventa tutt’altro che infondato. E poiché la società beneficia economicamente di tali somme, è proprio su di essa che ricade — in assenza di cooperazione da parte dei soci — il rischio di subire un accertamento.
Un’impostazione che, se da un lato rafforza le difese dell’erario, dall’altro solleva non pochi dubbi sul piano sistematico, poiché finisce col far gravare sulla società l’onere di provare fatti riferibili a soggetti terzi, sui quali essa non ha alcun potere coercitivo. Una tensione che tuttavia, almeno ad oggi, il diritto vivente sembra tollerare in nome dell’efficacia dell’azione accertativa.
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