Niente esterovestizione in caso di effettiva attività economica svolta all’estero

Con la sentenza n. 23842 del 25 agosto 2025 la Corte di Cassazione è tornata ad affrontare il tema dell’esterovestizione, ribadendo che essa costituisce un fenomeno abusivo e che, per poter essere contestata, è necessario dimostrare l’esistenza di una costruzione meramente artificiosa, priva di effettiva sostanza economica. In assenza di tale dimostrazione, la localizzazione all’estero della società non può essere rimessa in discussione quando l’attività economica sia realmente svolta fuori dall’Italia.

Il caso sottoposto ai giudici riguardava una società di diritto portoghese con sede a Madeira, operante nel settore del rimorchio d’altura e dell’assistenza a piattaforme petrolifere lungo la costa sud-occidentale dell’Africa. L’Amministrazione finanziaria italiana aveva ritenuto che la gestione effettiva fosse, in realtà, condotta dall’Italia, addebitando quindi alla società la residenza fiscale italiana ai sensi dell’art. 73, comma 3, del TUIR e attribuendole codice fiscale e partita IVA italiani.

La Cassazione, richiamando i principi già affermati nella nota giurisprudenza comunitaria (tra cui la sentenza Cadbury Schweppes della Corte di Giustizia del 2006), ha precisato che la mera scelta di costituire una società in uno Stato membro caratterizzato da un regime fiscale più favorevole non costituisce, di per sé, un abuso della libertà di stabilimento. L’abuso si configura solo quando l’insediamento all’estero corrisponde a una “scatola vuota”, priva di una reale attività economica, creata esclusivamente per beneficiare di un regime fiscale più leggero.

Nel caso concreto, gli elementi raccolti deponevano in senso opposto alla tesi dell’Ufficio: la società disponeva effettivamente di uffici a Madeira, di navi rimorchiatrici e di personale non italiano; le riunioni del consiglio di amministrazione e le assemblee dei soci si tenevano all’estero; l’attività operativa si svolgeva in un’area geografica coerente con la sede legale e il baricentro operativo della società. La circostanza che alcune funzioni fossero affidate, tramite contratti di ship management, a società italiane collegate agli stessi soci non era sufficiente a configurare l’esterovestizione, poiché mancava la prova che la struttura portoghese fosse un mero artificio.

Da qui la conclusione della Corte: anche ipotizzando la presenza di amministratori di fatto in Italia, tale elemento non basta a dimostrare l’esterovestizione senza la prova che la società estera fosse priva di effettività. Il discrimine, dunque, resta la concreta esistenza di un’organizzazione autonoma e funzionale nello Stato estero, idonea a giustificare la localizzazione della residenza fiscale.

La decisione, pur riferita al quadro normativo previgente, conferma l’orientamento che distingue fra la semplice ricorrenza di uno dei criteri di collegamento previsti dall’art. 73 del TUIR e la fattispecie dell’esterovestizione “abusiva”, circoscritta ai casi in cui l’insediamento estero sia frutto di una costruzione fittizia. La Cassazione, dunque, mostra continuità con l’impostazione comunitaria e con le più recenti analisi dottrinali, come evidenziato anche dalla circolare Assonime n. 15/2024.

Un ultimo aspetto che merita di essere sottolineato è che con l’esclusione della residenza fiscale italiana della società e con la conferma della sua localizzazione in Portogallo, sono venute meno automaticamente anche le contestazioni in materia di IVA, che si sarebbero dovute fondare su criteri di territorialità differenti. La pronuncia assume quindi rilievo non solo in ottica reddituale, ma anche per le implicazioni indirette sul piano dell’imposizione indiretta.

 

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